Shiatsu: non è un semplice massaggio

Lo shiatsu è una tecnica manuale legata all’applicazione della medicina tradizionale cinese. Consiste in pressioni su determinati punti, al fine di riequilibrare il qi, il soffio vitale che muove tutte i meccanismi fisiologici e che si condensa nelle strutture anatomiche del corpo umano. Si tratta tutto il corpo lavorando su dei canali chiamati meridiani o percorsi energetici.

Lo stage che si è svolto Domenica 14 Maggio presso la palestra Perfect di Castiglione del Lago rappresenta uno stimolo, per tutte le persone che sono alla ricerca del proprio benessere come obiettivo principale, di crescita e motivazione. Questo è il primo evento dedicato allo Shiatsu metodo Masunaga. Una bellissima giornata diretta dell’operatrice shiatsu Lucia Lupi, una professionista dalla grande esperienza nel settore oltre che persona dallo spirito evoluto.

Lo Shiatsu è una disciplina ancora poco conosciuta e praticata, è per questo che ho deciso di richiamara l’attenzione su questa arte antica dalle capacità terapeutiche molto elevate. I benefici sul piano Sintomatico e della prevenzione sono frutto di un naturale processo evolutivo connesso al generale miglioramento della vitalità.

Il maestro Masunaga ideò il proprio stile di shiatsu partendo dalla medicina tradizionale cinese, integrandola con la fisiologia occidentale, e ampliando l’approccio al sintomo con una visione olistica dell’intero individuo. Già il nome che venne dato a questo tipo di shiatsu “Zen” punta l’attenzione sull’ introspezione e la consapevolezza che il trattamento cerca di promuovere all’interno dell’individuo ricevente.

Il trattamento è esteso a tutto il corpo, proprio perchè i meridiani lo percorrono totalmente, e viene esercitato su tutti i livelli dell’individuo: secondo Masunaga nel meridiano scorre la vita, in ogni sua forma materiale ed immateriale.

Particolare attenzione all’aspetto psicologico: nella prima parte della sua vita Masunaga si laureò in psicologia, e tributò molta attenzione all’aspetto emotivo e psicologico, tanto nella diagnosi quanto nel trattamento. Secondo Masunaga, infatti, lo scorrere del qi è responsabile anche dello stato mentale dell’essere umano.

Photo © Federico Marcantoni

11 consigli per vivere meglio

Sono punti fondamentali da tenere bene a mente ed applicare alla vita perchè:

Essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Martha Medeiros

1. Obiettivi

“Un obiettivo non è sempre destinato ad essere raggiunto, spesso serve semplicemente come qualcosa a cui puntare”.

Gli obiettivi servono quindi per avere uno stimolo e non bisogna dare troppo peso al loro raggiungimento. Bisogna concentrarsi sul “viaggio” e il processo. Se si sta effettuando un’escursione su un sentiero bellissimo, il vostro obiettivo è quello di arrivare alla destinazione finale, ma questo non significa che non si può godere della passeggiata, o anche cambiare direzione. Siate aperti.

2. Flessibilità

“Si noti che l’albero più rigido si rompe più facilmente, mentre il bambù o salice sopravvive piegandosi con il vento.”

I popoli più felici del mondo, sono flessibili. Non hanno credenze rigide e non cercano di controllare o manipolare l’ambiente circostante. Se si vuole avere una vita appagante e felice, bisogna essere flessibili e accettare le cose come sono.

3. Tempo

“Se amate la vita, non perdete tempo, perché è il tempo ciò di cui è fatta la vita”.

Non c’è tempo da perdere, per soccombere alle vostre paure. So che può essere difficile, ma alla fine ognuno di noi muore, quindi perché non sfruttare al meglio la tua vita? Non perdere tempo e cerca di realizzare con coraggio i tuoi sogni.

4. Servizio

“Vivere realmente per gli altri.”

Il modo più soddisfacente di vivere è quello di aiutare e arricchire la vita degli altri. Se si riesce a trovare un modo per risolvere i problemi delle altre persone mentre si segue la propria passione, si ha trovato il modo ideale di vivere.

5. Accettazione

“Non preoccupatevi di chi è giusto o sbagliato o meglio. Non essere a favore o contro”.

Se vogliamo che la Terra diventi migliore, dobbiamo lasciar andare il giudizio, i pregiudizi e le credenze rigide. Non c’è bisogno di essere giusto o sbagliato, o dire che sei meglio di qualcun altro. Tutto è come è. Se non ti piace, puoi fare qualcosa di diverso, ma non iniettare energia negativa, perché non fai mai nulla di buono.

6. Risolutezza

“Non temere l’uomo che ha praticato 10 mila calci una volta, ma temi l’uomo che ha praticato un calcio 10 mila volte.”

Se si vuole ottenere risultati e qualcosa di grande, dovete smettere di sguazzare e saltare da cosa a cosa. La maggior parte delle persone smette prima di raggiungere qualsiasi risultato. Essi rinunciano troppo presto. Non essere una di quelle persone!

7. Creatività

“Nessun modo, nessuna limitazione”.

Significa non imporsi limiti troppo rigidi. Anche se un guru ti dice che qualcosa è impossibile non significa che lo sia. Ricordate, alla maggior parte dei grandi popoli fu detto che non avrebbero mai potuto fare qualcosa di grande, ma sono andati avanti e lo hanno fatto lo stesso. Ascoltate voi stessi e fate quello che vi emoziona.

8. Semplicità

“La semplicità è la chiave della brillantezza”.

Semplifica la tua vita ed elimina il superfluo. A noi come società, è stato insegnato a consumare e accumulare beni materiali. Per fortuna, stiamo iniziando a capire che questo non funziona. La felicità viene da dentro, non dall’esterno. La semplicità ti dà la chiarezza e la pace della mente.

9. Trova il tuo percorso

“Assorbire ciò che è utile, scartare ciò che non lo è, aggiungere quello che è unicamente vostro.”

Inizialmente, imparate da qualcuno che ottiene le cose in modo efficace, prendete ciò che funziona e scartate ciò che non lo fa. Siamo tutti unici, quindi col tempo dobbiamo trovare la nostra anima e iniziare ad ascoltare noi stessi. Ascolta il tuo cuore per l’orientamento. Dove cerca di portarti?

10. Attivati

“Conoscere non è sufficiente, è necessario applicare; la disponibilità non è sufficiente, si deve fare”.

È possibile leggere tutte le informazioni che volete, ma se non agite, non succederà nulla. Sarà come non avere mai una chiarezza cristallina, così si andrà avanti attraverso la confusione e l’incertezza. Devi iniziare a muoverti subito, al fine di arrivare dove vuoi.

11. Ego

“Le arti marziali sono, in ultima analisi, la conoscenza di sé. Un pugno o un calcio non servono per mandare all’inferno la persona che avete di fronte, ma per sconfiggere il vostro ego e la vostra paura.”

Tutto ciò che fai coinvolge il tuo ego. E ‘quello che ha paura. Vuole rimanere dove le cose sono comode, convenienti e sicure. Se ascolti il tuo cuore, tu sai che questo non è il percorso per te. Bisogna accettare la paura dentro di sé e continuare a muoversi. La vita è fatta per essere vissuta, quindi inizia a vivere e segui le tue passioni.

Allenamento e benessere

L’etica di Aristotele comincia così: lo scopo della vita è la felicità. La felicità si chiama eudaimonia e cioè buona riuscita del tuo demone. La prima cosa per essere felici è conosci te stesso, conosci il tuo demone. Quando hai conosciuto il tuo demone realizzalo bene, ma ad una condizione: realizzalo kata metron, ovvero secondo misura.

Queste le parole del professor Umberto Galimberti che in una delle sue innumerevoli interviste parla del concetto di felicità e vita. Un concetto questo, che mi ha ispirato molto anche nel mio ambito lavorativo, quello dell’allenamento e del benessere.

È opportuno fare una distinzione tra il concetto di felicità e quello di benessere:

Ricorre nelle diverse interpretazioni della felicità un aspetto: di corrispondere a uno stato di incoscienza. Quando si è felici si è totalmente immersi in ciò che si vive, totalmente partecipi, al punto da dimenticarsi di sé. Quel che viviamo coinvolge con il suo potere leggero di sospendere la nostra attenzione al passato, al futuro, a ciò che ci preoccupa o ci inquieta. Siano felici perché siamo liberi da noi stessi. Apparteniamo completamente, con gioia, all’esperienza qui e ora che stiamo vivendo.

Il sentimento del proprio benessere va in direzione opposta, richiede riflessione, attenzione a sé, per riconoscere e modulare le condizioni che ci consentono di sentirci bene, bene con noi stessi. Perché il ben-essere riguarda come noi siamo sereni e accoglienti verso noi stessi, verso l’essere umano che siamo, con le nostre complicate e variegate modalità di sentire, pensare, provare emozioni, agire. Il nostro ben-essere riguarda quanto ci riconosciamo con accettazione in chi siamo e in quel che viviamo. 

Questo significa che anche il dolore, l’inquietudine, la malinconia possono far parte del nostro benessere, perché ci occorrono per essere chi vogliamo e desideriamo essere. Vi sono allora dolori, dubbi, fatiche, insicurezze necessari al benessere, perché concorrono al significato che vogliamo trovare in quel che viviamo. E vivere una fatica o un disagio con benessere significare aver dato loro ospitalità, averle riconosciute come nostre e indispensabili. Diverse sono le fatiche e disagi senza benessere, perché si agitano in noi come corpi estranei, a cui reagiamo, sentendocene danneggiati.

Pertanto, se la felicità ci sottrae noi stessi, in un tempo ridotto al qui e ora, il ben-essere ci richiede la consapevolezza della nostra identità, che è durata e progetto nel tempo.

Tratto da “La diversità tra felicità e benessere psicologico” di Gian Maria Zapelli.

Anche se apparentemente certi concetti filosofici e psicologici sembrano distanti dalla pratica dell’allenamento fisico, in realtà sono principi legati tra loro in maniera evidente.

La forma mentis con la quale ci si approccia all’allenamento determina la qualità di quest’ultimo. Di conseguenza la ricerca del benessere è uno dei principi allenanti più importante. Quello che ripeto sempre ai miei allievi o durante una sessione di personal training è di focalizzarsi sul proprio obiettivo e vivere l’esperienza dell’allenamento con intensità emotiva e concentrazione. Nel momento in cui hai focalizzato il focus cerca di goderti il viaggio verso il miglioramento. Così facendo il risultato sarà una gioia e la conseguenza del benessere una sicura certezza. Ecco dunque che, anche in questo caso, il concetto di consapevolezza affiora e determina il risultato: “Il benessere ci richiede la consapevolezza della nostra identità”. Metto sempre in primo piano questo principio come istruttore e p.trainer cercando di arrivare, tramite l’esercizio fisico ed il suo graduale miglioramento gestuale, all’acquisizione di una consapevolezza rivolta al benessere sia fisica che percettiva.

Pensieri e considerazioni sulla pratica del Karate

Quando anche l’inclassificabile diviene classificabile, e tutto rimanda all’argomentazione principe: l’uomo che nel suo micro mondo personale espande la propria coscienza. Armonizza la gestualità della pratica grazie all’approccio tecnico, alla costanza interna (spirituale) ed esterna (fisica). L’individuo plasmato dall’arte marziale diviene uomo inteso come essere consapevole, diretto. Come una freccia scagliata nell’abisso, alla ricerca della propria intima verità, senza contemplare i compromessi del caso, se non l’accettazione della condizione di essere umano e, proprio per questo, dei grandi limiti che ne derivano.

Questo per sottolineare l’importanza dell’attitudine e dei principi etici che nell’ambito del tradizionale ne determinano l’effettiva efficacia. Molti si impantanano nel labirinto della tecnica pura o fine a se stessa e spesso non ne escono più. Coltivano questa esasperata ossessione dedicando ogni singola energia alla ricerca della perfezione gestuale, limitando così la parte umana, l’errore.

Osservando le forme, o kata, della natura si nota una certa asimmetria ed imperfezione, che ne determinano altresì l’effettiva sopravvivenza evolutiva.

Il piumaggio del falco pescatore è estremamente asimmetrico se guardato singolarmente. Questa particolare geometria gli permette di volare, cosa che non sarebbe possibile se il principio fosse stato alimentato dalla forma pura (tecnica) e dal suo necessario rigore.

La pianta tende a crescere seguendo la fonte di energia primaria: la luce. Ricercando quella parte di energia che gli permette di sviluppare tutti i processi chimici necessari alla vita (fotosintesi clorofilliana). Ogni ramo è estremamente asimmetrico e la geometria della crescita vegetale regolata dalla posizione e condizionata dalle caratteristiche dall’ambiente circostante, che ne determinano l’estensione e la direzione.

Eppure è evidente che in questo groviglio in perenne mutamento è nascosta una bellezza inequivocabile, che ci appare ai nostri occhi come qualcosa di incredibilmente armonico (sezione aurea).

Promuovere la pratica delle arti marziali in sintonia con questi principi vuol dire incentivare la crescita personale di ogni individuo. Non è necessario che in questo mondo vi siano grandi guerrieri o eroi da sacrificare. Credo invece sia necessario che vi siano persone migliori, uomini e donne più consapevoli e “in pace” che abbiano il coraggio di essere quello che sono, comprendendo quali siano i propri limiti senza la necessità di superarli a prescindere, ma smossi dal principio del miglioramento.

Il Karate rappresenta una fucina dalla quale attingere se questi sono i principi cardine, fulcro di una pratica alimentata da una vorace e granitica volontà. Così nell’arte marziale come nella vita.

Spesso la forma viene modificata e plasmata per farla somigliare più possibile all’immagine razionale che l’individuo si figura dentro la sua mente. Essa non rappresenta altro che l’illusione e l’apparente controllo con il quale la mente imprigiona e restringe. Molto spesso quella forma è distorta ed offuscata dalla paura, o peggio ancora dal terrore della verità del mondo che rimane inafferrabile ed infinitamente più sfuggente di ogni costruzione mentale. Accettare le cose così come sono non è abbastanza, è necessario metabolizzare questo concetto per cercare di cogliere quell’innegabile bellezza insita nella semplicità.

Nell’esecuzione della tecnica percepire questo mistero è un attimo, un istante millimetrico e preciso. Quando accade è palese ed irrazionale, ma esiste ed è reale. Assaporare la fluida bellezza della semplicità delle cose è sinonimo di una pratica sincera.

di Federico Marcantoni

Articolo pubblicato su KarateDo Magazine: facebook.com/karatedomagazine

Riflessioni sul dolore

Vorrei porre l’attenzione sul concetto di dolore, in particolare riferendomi al capitolo denominato “Chiudere la porta” dell’interessante libro “Zen quotidiano” scritto da Charlotte Joko Beck. Il dolore spesso viene concepito come qualcosa da evitare, assumendo così una connotazione estremamente negativa. In un certo senso è proprio da esso che possiamo trarre la forza necessaria al miglioramento e all’autoanalisi, indispensabile nell’acquisizione della consapevolezza di noi stessi. Il dolore, in sintesi, non dovrebbe essere qualcosa da cui fuggire o nascondersi, ma da vivere nella sua pienezza, così da poterne definire la funzione che è ben diversa da quella della sofferenza.

La libertà è strettamente connessa con il nostro rapporto con il dolore e la sofferenza. Vorrei riproporre una distinzione tra le due parole. Il “dolore” viene dall’esperire la vita così com’è, senza aggiunte né fronzoli. Possiamo anche chiamarla la “diretta esperienza della gioia”. La “sofferenza” è il tentativo di evitare, di fuggire l’esperienza diretta del dolore. La paura del dolore ci fa costruire una sovrastruttura egoica che pensiamo ci metta al riparo, e invece ci dà sofferenza. Libertà è disponibilità al rischio di essere vulnerabili, è apertura a tutto ciò che succede momento per momento, piacevole o doloroso. Ecco dove interviene la dedizione. Se sappiamo darci completamente, senza tentare di mettere niente in salvo e senza più volontà di evitare l’esperienza del momento presente, non c’è sofferenza. Se sperimentiamo totalmente il dolore, ecco la gioia.

Da un punto di vista più specifico Kenji Tokitsu scrive riguardo al dolore:

Quando ho smesso di colpire il makiwara*, ho cominciato a sentire un dolore vivo ai polsi, che è durato più di un anno. Poi il dolore è diminuito fino a cessare. Ho compreso più tardi che la circolazione del ki**, ostruita o frenata a causa di shock regolarmente subìti sui polsi, stava riprendendo; spesso questo processo si manifesta con un dolore. In quell’occasione, ho imparato che il dolore non è sempre una cosa negativa.

* Attrezzo comunemente impiegato sin dall’antichità nell’istruzione delle arti marziali.

**Energia “interna” del corpo umano.

<< Il dolore è l’unico strumento che abbiamo per sviluppare la nostra forza. Ricordatelo quando dovrete affrontare situazioni che vi procureranno dolore

BRUCE LEE

Testi di riferimento:

“Zen quotidiano. Amore e lavoro” di Charlotte Joko Beck.

“La ricerca del ki” di Kenji Tokitsu.

Carattere e personalità

Leggendo le parole di Shiba Yoshimasa* mi sono reso conto di quanto la visione del generale sia esattamente in fase con le conseguenze dell’attuale (in termini di traslazione) declino sociale, inteso come mancanza di principi etici e morali.

Shiba fonde concetti e pratiche buddhisti, shintoisti e confuciani a proposito dello sviluppo morale e psicologico del guerriero.

Egli considera i principi religiosi e morali come strumenti per coltivare il coraggio, il carattere e l’intelligenza, contrapposti a qualsiasi tipo di ipocrisia e artificio, compresa la pratica popolare di pregare per chiedere la soluzione dei propri problemi personali, che a suo parere creano un senso di debolezza e dipendenza.

Shiba mette anche in guardia dall’ideale del sacrificio di sé, in un certo senso il sacramento massimo del bushido, insistendo sul fatto che per legittimare la morte di un guerriero è necessario un contesto morale.

Nell’estratto che ho deciso di proporvi sono molti gli spunti interessanti sui quali mi sono soffermato a riflettere. Concetti reali e molto concreti, a partire dal principio del “carattere” e del discernimento tra giusto e sbagliato. Una qualità oggigiorno sempre più rara e per questo estremamente attuale. Credo fermamente che il senso critico sia alla base della propria visione interiore ed esteriore.

La bontà d’animo che ad oggi viene criticata e mal giudicata, come fosse una specie di handicap morale: <<Chi è sempre educato e gentile viene guardato con disprezzo.>>

Come già ho espresso altre volta parlando dell’Hagakure ed altri saggi, le parti riguardanti il combattimento e le tecniche di guerra sono a mio avviso dei puri riferimenti di condotta, che se interpretati con giusto buonsenso ed intelligenza, possono essere applicati anche nella propria quotidianità.


La disgrazia peggiore per una persona è avere un brutto carattere. Indipendentemente dal grado di irritazione, il primo pensiero deve essere quello di calmare la mente e discernere tra giusto e sbagliato. Se sei nel giusto, puoi anche arrabbiarti.

Se ti arrabbi senza motivo, spinto solo dal tuo temperamento, le persone non restano intimorite, per cui se anche tu dessi ancora più in escandescenza non servirebbe a nulla. La gente si intimorisce o si vergogna solo quando c’è un fondo di verità, quindi se qualcosa ti procura solo fastidio dovresti cercare di calmarti e riflettere. È bene essere disposti a cambiare quando si sbaglia. Sarebbe più problematico continuare a pensare o a comportarsi in un certo modo, a prescindere da ciò che è giusto o sbagliato, solo per coerenza con quanto si è fatto in precedenza.

D’altro canto, se pensi che la bontà sia essere sempre docili come un bambino di tre anni, e che non puoi nemmeno arrabbiarti, lasciando correre le cose quando invece ti dovresti risentire, lamentare o dare una lezione a qualcuno, farti conoscere come una persona cui va bene tutto quello che dicono o fanno gli altri, questo è un male per gli altri e sarà una perdita per te. È meglio criticare quello che va criticato, mantenendo sempre la mente serena, dire ciò che va detto e non essere considerati persone sciocche e disinformate.

Personalità simili potevano essere considerate buone o cattive in passato, quando le persone erano particolarmente buone. Al giorno d’oggi, la gente cerca solo di raggiungere gli altri o di metterli in ridicolo, così chi è sempre educato e gentile viene guardato con disprezzo. Se i buddhisti, in qualità di cosiddetti viandanti inconsapevoli, sembrano non avere né occhi né mente o si comportano come i bambini piccoli, questo è un altro discorso. E gli ignoranti, che non si rendono conto di quando qualcosa è sbagliato e si limitano a stare zitti, non dovrebbero essere definiti brave persone. Dovete valutare e distinguere tutto ciò con attenzione.

Coloro che praticano la meditazione seduta, come i monaci, sono svegli in tutti i campi, anche se non sono intelligenti di natura, perché calmano la mente. Anche i letterati, mettendo al primo posto il proprio lavoro, calmano la mente per studiare, così sono spontaneamente acuti anche nel resto.

[…]

Finché viviamo nel mondo umano, nemmeno una cosa su dieci è conforme ai nostri desideri. Perfino un monarca non può ottenere tutto ciò che desidera. Infatti, se nella nostra attuale condizione cerchiamo in qualche modo di imporci per modificare le cose che non corrispondono ai nostri desideri, dobbiamo comunque piegarci alla regola dell’ordine di natura.

Nessuno penserebbe che verrà approvato oggi dal momento che è stato mortificato ieri, o che raggiungerà i suoi obiettivi quest’anno perché non ci è riuscito l’anno scorso. Conservando una mente che è simile a polvere, quasi fosse inesistente, ogni momento sempre di più, le persone dovrebbero agire dimenticando i desideri. Se resta del risentimento, significa che la persona è contorta.

L’espressione “persona contorta” è svalutativa per i parametri sia sociali che religiosi. Chiunque diventi egoista e ostinato e si rifiuti di dimenticare è una persona debole e ha la vista corta. Tuttavia se cerchi di liberare la mente intenzionalmente, questo significa creare un pensiero estraneo.

Fa’ in modo di basare tutto sulle persone e di non imbrogliare. Quando arriva il momento dello scontro, anche se sei giovane devi mantenere sempre il morale alto e pensare che nessuno è più forte di te. Pensa che sarai una fonte di energia per gli altri, e che anche loro saranno un sostegno per te.

Non fare mai domande relative alla guerra a chi è pavido di natura, anche se lo conosci bene.

Non cercare di evitare il lavoro del momento solo perché è pericoloso. Non portare avanti una guerra ingiusta, solo perché è facile.

In generale, quando sai che il combattimento sarà facile, lascia la prima mossa all’avversario. Quando si preannuncia pericoloso, consideralo un compito soltanto tuo, anche se dovrai fare centinaia di tentativi. Un comportamento ingannevole è particolarmente disdicevole durante il combattimento.

*Shiba Yoshimasa (1349-1410) è stato un generale e amministratore giapponese durante il periodo Muromachi.

Tratto da “La mente del samurai, il codice del bushido” a cura di Thomas Cleary.

   

Il kata

Adoro quella ritualità spinta fatta di concatenamenti gestuali caratteristici della pratica del kata. In esso trovo uno spazio interiore nel quale esercitare la tecnica pura, veicolata da una certa condizione spirituale rivolta alla meditazione attiva. È di fondamentale importanza l’aspetto della cadenza, come descritto nell’interessante libro dal quale ho deciso di estrapolare l’articolo: <<Sono appunto tali cadenze a fornirci l’orientamento per trovare l’articolazione reciproca dei gesti>>.

L’indispensabile pratica e la ricerca della perfezione gestuale fanno del kata la radice tecnico-stilistica dell’arte marziale stessa. L’apprendimento di tale gestualità ed il corretto atteggiamento mentale con il quale ci si dedica all’esecuzione, nella sua complessa armonia, rendono a mio avviso il kata inscindibile per ogni praticante di arti marziali tradizionali.

Credo sia essenziale immedesimarsi nel kata con tutta la propria anima. In un mondo così dominato dalla falsità in ogni sua forma, il kata è per me una necessaria ed onesta opportunità di trascendimento consapevole.


Il kata

La traduzione letterale della parola kata è: forma, matrice, tipo, ecc. Il kata conferisce una struttura a molte discipline giapponesi che hanno in comune la ricerca del do. Proporrò dunque questa sintetica definizione generale del kata: si tratta di una sequenza composta da gesti formalizzati e codificati, alla cui base sta uno stato di spirito orientato alla realizzazione del do.

Sequenze che corrispondono a questa definizione possono essere osservate non solo nelle arti marziali come il kendo, il judo, il karate-do, dove esse effettivamente portano il nome di kata, ma anche in altre arti tradizionali o come il kado (composizioni floreali), il sado (cerimonia del tè), lo shodo (calligrafia) o ancora nel teatro e nella danza classica giapponese. In tutte queste discipline, nello sforzo di realizzare il kata sotto una forma perfetta si cerca di sincronizzare le tecniche gestuali formalizzate con l ostato spirituale. Nell’esercizio e nel perfezionamento del kata, il corpo, simile a un battello che viaggi seguendo un determinato percorso, tende a una fusione gestuale e psichica che sta alla base dell’apprendimento della perfezione cercata.

Nel kata tradizionale conosciamo una quarantina di kata originali ai quali vengono ad aggiungersi delle varianti. La maggior parte di questi kata comporta una quantità di movimenti compresa tra i venti e i sessanta.

I kata hanno sempre rivestito un ruolo di primaria importanza nella comunicazione delle tecniche di combattimento: infatti nei kata sono contenute tutte le tecniche classiche del karate-do.

Un kata è sempre la trasposizione codificata di un combattimento reale tra più avversari. A una situazione di partenza di volta in volta differente si agganciano tecniche d’attacco e di difesa in risposta ai presunti movimenti degli avversari.

Così come li conosciamo, i kata non sono creazione di un unico maestro, ma condensano l’esperienza accumulata nel corso di molte generazioni, e ce la trasmettono. La loro forma ci è perfettamente nota, ma il significato resta spesso incerto. Le ragioni sono svariate: nel kata ci si addestra da soli, poiché si tratta di un esercizio imperniato sui concatenamenti dei gesti; se ogni gesto è concreto, senza la presenza dell’avversario non è evidente la situazione cui esso corrisponde. Il fatto che nell’insegnamento tradizionale l’azione degli avversari non sia esplicita è deliberato: infatti si presume che gli allievi trovino da soli il significato in funzione del proprio personale progresso. Inoltre, talora le tecniche sono state trasmesse con l’intento di dissimulare ai concorrenti o a un potere oppressivo. Si può supporre che in questo caso certe parti del codice siano state volontariamente deformate per riservare il sapere ai discepoli che fossero al corrente di tali alterazioni. Da allora in poi, i gesti continuano a essere trasmessi, mentre si sono ormai perdute da tempo la maggior parte delle spiegazioni…

Tratto da “Lo zen e la via del karate” di Kenji Tokitsu.

Allenamento funzionale: il sacco pesante

Ormai il sacco è parte integrante delle mie sessioni di allenamento. Per un artista marziale non è indispensabile ma per quanto mi riguarda lo trovo uno strumento molto utile. Di fatto posso eseguire tecniche alla massima intensità e valutare la potenza del colpo definendone in maniere più veritiera possibile la sua efficacia. Ci sono molti tutorial online che ti possono aiutare a scegliere il tipo di sacco più adatto alle tue caratteristiche e metodo di lavoro. Adesso ce ne sono di tutti i tipi, anche ibridi gonfiati con aria o acqua per un effetto diverso all’impatto ed una diversa riverberazione sulle articolazioni. Non preferisco considerare il sacco nell’ambito del condizionamento fisico, anzi cerco di usare dei bendaggi e guanti adeguati. Consiglio comunque il suo utilizzo a “mano libera” solo a praticanti esperti. Non dimenticarti di eseguire i colpi con perizia tecnica, soffermandoti sulle linee di affondo.

Il sacco è anche utile ad allenare la mente e l’immaginazione. Non dovrebbe essere considerato come un oggetto inanimato costretto a subire solo dei colpi. È molto importante muoversi e schivare mantenendo alta la guardia e la concentrazione nell’esecuzione dei colpi. In più, nel momento della pratica diventa a tutti gli effetti un compagno di allenamento, che ti permette di progredire nella tecnica, sfruttando a pieno forza, velocità e quindi potenza esecutiva. Nel sacco sono racchiuse tutte le paure, le ansie e lo stress della quotidianità, è per questo che diviene anche un’ottima opportunità per distendere i nervi e non sprecare energie invano.


OLTRE IL SACCO PESANTE

Lee riteneva che, dopo aver sviluppato abbastanza potenza grazie all’allenamento con il sacco pesante, uno dovrebbe diminuire la quantità di tempo spesa ad allenarsi sul sacco, lavorando invece su altri aspetti di padronanza tecnica, come il tempismo, la coordinazione, la distanza, la velocità e la precisione. Durante una telefonata a metà del 1971 consigliava a Daniel Lee:

Quando usi la gamba è molto meglio usarla per calciare il blocco imbottito o qualcosa del genere. Stai attento a non eseguire troppi calci laterali in aria, dato che fa male all’articolazione del ginocchio.

Lee istruiva i suoi allievi a cercare di sviluppare una sorta di sensazione diretta o, come diceva lui, di <<contenuto emotivo>> riguardo al colpire il sacco. Non colpitelo o spingetelo meccanicamente, ma mettete davvero passione e significato in ogni colpo. Il miglior esempio di questo mi è stato portato da Richard Bustillo, uno degli allievi di Los Angeles di Lee. Bustillo ricorda:

Una volta ci stavamo allenando e Bruce stava colpendo il sacco pesante – e stava uscendo di testa, come se fosse arrabbiato col sacco. Tirava su con il naso e colpiva davvero forte. Credo che ci fosse Ted Wong lì e io guardavo Ted e lui mi guardava come per chiedere: <<L’hai fatto arrabbiare? L’ho fatto arrabbiare io? Che cosa è successo?>>. Ci stava davvero dando dentro con il sacco; ci stava mettendo il cento per cento e pestava davvero. E poi quando finì ci guardò e ci disse: <<Dai ragazzi, su. È il vostro turno>>. Io gli chiesi: <<Cos’è successo prima?>>. Lui rispose: <<È il jeet kune do, devi essere emotivamente coinvolto quando ti alleni>>. E Bruce era in grado di iniziare e finire il coinvolgimento emotivo quando lo desiderava.

Il sacco pesante può essere uno strumento molto prezioso per imparare ad applicare la potenza che si è guadagnata attraverso gli allenamenti sulla forza. Oltre a sfogare lo stress, allenarsi sul sacco pesante vi insegnerà a coordinare le parti del corpo in un tutt’uno dinamico e coerente, e migliorerà qualità come il ritmo, l’equilibrio, il senso del tempo, la produzione della forza, lo schivare e la precisione. Come Lee stesso disse: <<Quando parli di combattimento, be’, allora ragazzo mio, sarà meglio che alleni tutte le parti del corpo!>>.

Bruce Lee continuò ad usare il sacco pesante fino al suo ultimo allenamento e imparò molto sul potenziale del proprio corpo da questi allenamenti. Quindi lasciamo a Lee l’ultima parola sull’argomento: <<Usa quel sacco pesante, muoviti, giraci intorno. L’unico beneficio deriva dalla tua immaginazione e dalla tua abilità di colpire con velocità e potenza>>.

Tratto da “Bruce Lee. La perfezione del corpo” a cura di John Little.

Azione e reazione

In linea con l’argomentazione che ho trattato nel precedente articolo riferendomi al principio del sen-no-sen, vorrei parlare (su richiesta dell’amico e karateka Fabrizio Frizzoni) del go-no-sen.

Prendo spunto dalle parole del maestro Alfredo Principato:

“Durante lo spazio-tempo in cui l’avversario attacca, ovvero porta a termine l’azione risolutiva, si esegue col massimo kime un forte bloccaggio, o una schivata accompagnata da una difesa. Da notare che queste reazioni difensive hanno la medesima durata dell’azione alla quale si replica più o meno simultaneamente con un appropriato contrattacco. Il ritmo e la distanza dell’avversario vengono in questo caso percepiti quando questi sta già portando a termine l’azione risolutiva.

Il principio del go-no-sen è in effetti uno dei più diffusi, in tutti i livelli di pratica. In quanto si può attuare quando l’avversario ha palesemente preso l’iniziativa, e in più richiede scarse capacità percettive. Tuttavia il suo corretto impiego, che può essere estremamente efficacie, presuppone una buona capacità di interpretare il ritmo dell’attacco, rapidità di esecuzione, una notevole forza esplosiva, e soprattutto una piena padronanza dell’assetto del corpo”.

Quindi concettualmente possiamo dire che il principio di difesa-contrattacco è il più “semplice” da un punto di vista di assimilazione del gesto funzionale ed esecuzione pratica. L’effettiva messa in atto presuppone una capacità fisica molto più ancorata alla parte esterna, materiale, ma non richiama quel fraseggio più interiore del concetto di anticipo, il così detto “attimo folgorante”. Caratteristica del sen-no-sen o in maniera ancora più radicata nel sen-sen-no-sen che si basa sull’intuizione (sakki) della possibilità di essere oggetto di aggressione.

Questi principi descritti in forma nettamente più pratica, e rivolti all’arte guerriera della spada nel “Libro dei cinque anelli” di Miyamoto Musashi, ne fanno uno schema strategico essenziale e fulcro del sistema azione-reazione nel combattimento.

Vorrei soffermarmi su questo argomento ed introdurre quelli che sono i possibili limiti della reazione:

“Sia per l’attacco che per la difesa (schivate, bloccaggi, contrattacchi) serve un processo <<occhio-decisione-azione>> che richiede un certo tempo. Per la difesa questo tempo è molto più lungo di quanto pensiate soggettivamente.

Più si è motivati, più si è aggressivi o arrabbiati, o ancora più si è giovani, più si attacca con dei <<pre-segnali>> e con <<richiami>> importanti (del piede, del corpo, ispirando o fermando il respiro) o con segni appena percettibili (nel viso, negli occhi, col corpo che prepara…) Questo risveglia intuizioni tali che un testimone potrebbe credere di assistere a una specie di trasmissione del pensiero. Allora è possibile anticipare in sen-no-sen. Lo spirito in questo caso è di non partire DOPO che l’avversario ha preso la decisione di attaccare e arrivare PRIMA di lui”.

In base a questa descrizione è evidente quali siano i limiti dell’agire go-no-sen. Ci sono anche molti altri fattori che influiscono in questo senso, uno fra tutti il principio per il quale <<Curiosamente, quando il pugno è chiuso, si verifica un rallentamento notevole verso il luogo dell’attacco, mentre se la mano è aperta vi è un’accelerazione continua>>, ma di questo magari ne parlerò in un altro articolo.

Nessuna possibilità preclude le altre, di conseguenza non vi è mai una tecnica funzionale a prescindere vista la quantità di variabili. Cercare di “viaggiare” negli atteggiamenti e nell’azione in base al contesto ambientale necessita di una certa qualità introspettiva, oltre che di un allenamento specifico. Del resto anche nella vita stessa un pugno non dato (simbolicamente) può fare più male di quello dato.

Bibliografia

“Fondamenti di Karate-dō” di Alfredo Principato.

“L’Arte Sublime ed Estrema dei Punti Vitali” di Fujita Saiko e Henry Pléè.

Anticipo o incontro

Ritorniamo a parlare di quel principio tanto amato nelle arti marziali che identifica un momento strategico essenziale, necessario alla comprensione ed assimilazione del gesto e della sua efficacia: il sen-no-sen. Nell’articolo che ho deciso di proporvi si approfondisce questa particolarità del nostro cervello di non cambiare direzione quando la decisione è stata presa. Un’ostinazione (come descritto nell’articolo) che spesso e volentieri produce più effetti negativi che positivi. Questa andrebbe altresì strutturata ed utilizzate nella maniere più opportuna visto che è parte integrante del reticolo genetico della nostra natura inconscia. Salvaguardare la nostra integrità attraverso il principio del sen-no-sen è di capillare importanza, sia per coloro che praticano arti marziali che per tutti gli altri. Coltivare questo meccanismo e renderlo funzionale all’azione richiede un particolare impegno interiore, necessario per favorirne la giusta fluidità.


Quando è stata presa una decisione il cervello si ostina nel portare a termine l’azione.

Un’altra stranezza del nostro cervello triunico si manifesta quando quest’ultimo decide un’azione di combattimento. Allora si comporta come un uomo <<testardo>> che si ostina a compiere del tutto quello che ha deciso.

Si tratta di un’ostinazione che può mettere gravemente in pericolo il padrone di questo cervello. L’avversario e… noi stessi. Visto che ciò che è valido per noi lo è nello stesso modo per lui su di noi.

[…]

Alcuni animali, dopo le loro prime difese <<in stato di disperazione>>, hanno tuttavia il riflesso di <<fare il morto>>, realmente incoscienti… cosa che probabilmente è una gentilezza della Natura perché vengono divorati dal predatore senza sentire dolore, come quando noi veniamo operati senza dolore da un chirurgo. Vediamo ora un’altra particolarità del cervello che si comporta da kamikaze deciso ad andare fino in fondo, ad ogni costo. E talvolta… questo costa molto caro.

Quando durante un combattimento grave il cervello dell’avversario decide un attacco e nel corso di questo attacco si rende conto di aver fatto un errore, il suo cervello rifiuterà sempre di annullare la sua decisione o di sospendere l’attacco (o la difesa) durante l’azione. E questo anche se vede che la catastrofe sarà inevitabile.

Questa <<ostinazione>> è di competenza dell’autosuggestione (subconscio/inconscio). Talvolta viene chiamata <<effetto sedia>> perché il cervello si comporta nello stesso modo quando si decide di sedersi su una sedia, e, quando la decisione è stata presa e si comincia a sedersi, anche se si vede che un burlone scosta la sedia… ci è impossibile fermare l’azione e cadiamo a terra.

Per questa ragione, in allenamento, è frequente iniziare un attacco con la decisione di arrivare alla fine… e di non potersi fermare nel corso dell’azione. Nel karate chi tra noi non ha mai <<lanciato un colpo>> (di pugno, di piede), visto che l’avversario metteva gomito o ginocchio in protezione… e si è ritrovato con un alluce o una mano ferita. È lo stesso per tutte le arti marziali, compreso il judo. Il famoso sen-no-sen* è basato su questa particolarità del cervello.

Ci sono soluzioni (che si possono combinare) per evitare questa particolarità del cervello.

La prima è avviare l’azione tanto in fretta quant’è possibile ma dolcemente senza cercare la partenza esplosiva (altrimenti non si possono evitare i <<richiami>> che mettono in allerta l’istinto di conservazione dell’avversario).

La seconda è partire come sopra, nella misura possibile, ma restare neutri mentalmente fino alla metà dell’azione (senza una velocità eccessiva) e di finire accelerando in velocità, a seconda di quel che fa l’avversario o di quel che scopre. Se la decisione estrema viene presa partendo dalla metà dell’azione, il nostro cervello non si opporrà all’azione e l’avversario sarà toccato senza aver avuto il tempo di fare qualsiasi cosa.

L’<<effetto sedia>> può essere esplosivo nella difesa. Bisogna adescare l’avversario in un modo qualsiasi per provocare il suo attacco e deviare quest’ultimo (contrattaccando allo stesso tempo) solo nell’ultimissimo momento, nello stadio in cui l’avversario è convinto che sta per colpirci. A questo stadio il suo cervello viene invaso da una sorta di soddisfazione (<<ecco fatto!>>); ha abboccato al nostro amo e non è più capace di fermare l’azione o di deviarla, né comandare una difesa. Se l’avversario ha impiegato tutta la sua energia per toccarci, può anche perdere l’equilibrio e cadere a terra. Una piccola spinta da parte nostra può aiutarlo. È il principio del tui-shou cinesi, che si potrebbe tradurre con <<spinta assorbente>>.

*Anticipo o incontro.

Vi rimando all’articolo pubblicato su Karate-dō Magazine “Sen-no-sen – L’attacco d’incontro”.

Tratto da “L’Arte sublime ed estrema dei punti vitali” di Fujita Saiko e Henry Plée.